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Autore Capote: etica ed estetica
Petrus

Reg.: 17 Nov 2003
Messaggi: 11216
Da: roma (RM)
Inviato: 29-01-2007 21:41  
avvertenza: per una più agevole e circostanziata lettura di quanto segue sarebbe bene avere a portata di mano le immagini presenti in questa pagina


Che Bennet Miller volesse parlare di un tema, del dipanarsi di una dinamica di interrelazioni, piuttosto che fotografare semplicemente una parte della vita di un uomo, seppur un grande e chiacchierato scrittore del ‘900 come Truman Capote, durate la tormentata stesura del suo capolavoro, “A sangue freddo”, lo si evince sin dalla prima sequenza del suo film.
Miller mette a tema il confronto tra due universi monadici, quello introdotto, per l’appunto, dalla sequenza iniziale, della provincia americana, dei paesi solitari, sommersi dal mare di campi, di steppe, e quello, creato dall’aspettativa del pubblico derivante dal titolo e dall’argomento, dell’ambiente salottiero e sofisticato in cui Capote viveva e si muoveva.
Essendo già in mens spectatorum questo secondo scenario, il regista parte dal primo, rimandando nell’estetica descrittiva della prima sequenza a una precisa etica della messa in scena.
Capote non è il vero fulcro del film. Lo è piuttosto il suo rapporto con Perry, l’omicida, che viene posto come antitesi allo scrittore, diventando entrambi paradigma della dicotomia che Miller vuole mettere in luce. Ma Capote è necessario al muoversi di tutta la vicenda, è il motore che spinge l’indagine (propria e del regista), ed ecco perché, sullo schermo nero, appare il suo (cog)nome, centro del film, eppure solo pretesto. Ecco il perché il titolo e la contestualizzazione dell’azione, appaiono così ben circostanziati, eppure così poco in rilievo, così minuti all’interno dell’enormità dello schermo buio (figure 1-2).
Ma, immagazzinata la figura attorno alla quale si svolgerà il film e il tempo dell’azione, il sipario si apre sul secondo polo attorno a cui ruota il film, sulla campagna nella quale si consuma (si è già consumato) l’efferato omicidio.
E la scelta rarefatta delle inquadrature innesta da subito la pellicola sui binari della tesa ma pacata indagine riflessiva sull’uomo e sui suoi moti dell’animo.
La prima inquadratura (figura 3) è paradigmatica di tutto quel che vedremo nelle prossime due ore. Un primo piano di un campo di spighe, battute dal vento, sullo sfondo di un cielo grigio. Il regista prende da subito le distanze con il mondo abituale in cui Capote si muoveva. I salotti, l’alta società newyorkese, verrà raffigurata fugacemente, il necessario per descrivere senza approssimazione il personaggio.
Sin da subito si è immersi nella provincia, una provincia non solare e serena, ma un ambiente grigio, legato alla terra, di solidi e noiosi agricoltori.
Le due inquadrature successive (figure 4-5) sono due piani descrittivi: il totale del campo di grano, e l’immagine di una casa, le cui finestre con tutta probabilità si affacciano sul campo stesso - anche se non è necessario, il lavoro di montaggio viaggia per associazioni e somiglianze: le spighe, il campo e la casa potrebbero essere assolutamente lontani fra di loro (come forse è) ma vengono associati dalla conoscenza comune che lo spettatore medio ha della campagna. La catena spighe-grano-casa di campagna è immediatamente percepita come legata consequenzialmente, e permette al regista di portare avanti un discorso semantico, di significato, a partire da tre semplici inquadrature - .
Tanto immediato è il collegamento percettivo, che non serve altro per comprendere che lo snodo di questa prima sequenza sarà proprio la casa.
Tant’è che al quarto stacco si ha conferma di ciò nell’inquadratura dell’ingresso visto dall’interno (figura 6), che oltre a focalizzare l’attenzione sul luogo dell’azione, suggerisce che vi sia per essere un movimento, in entrata o in uscita, come prima azione scenica del film.
L’isolamento, il grigiore, la staticità delle prime immagini, ci porta a percepire che la ragazza che effettivamente sta bussando alla porta (figura 7), sia in attesa da un qualche tempo. Sensazione creata dalla gestione statica della macchina da presa, dalla totale assenza di commento musicale, come dal fatto che la presentazione del primo personaggio avviene in campo lungo. Ne percepiamo la figura, a malapena gli abiti, capiamo quel che sta facendo, il suo voltarsi lievemente spazientito. La messa in scena porta l’attenzione non su chi sia, ma su quel che fa, aiutando, anzi, conducendo per mano lo spettatore verso un lieve, impercettibile senso di disagio, di incertezza.
Il girarsi della ragazza verso la macchina (figura 8 ), dato l’isolamento della casa, dà motivo di credere che nessuno degli abitanti si sia mosso di lì. Questo, unito alla percezione di attesa di cui si diceva prima, conferma l’intenzione di creare una situazione incerta, anomala.
Miller impiega per proiettare lo spettatore nel vero cuore del suo film, il paese in cui Capote si troverà ad ambientare il suo “A sangue freddo”, solo 8 inquadrature, impersonali e statiche, che rimandano alla cifra complessiva del film, alla scelta etica del regista, di interessato distacco, che si manifesta attraverso l’estetica del girato.
Su questa falsariga ci si addentra nel film (e nella casa), passando alla descrizione del fatto, dell’omicidio, già compiuto, continuando ad immergersi in un certo modo, freddo e terribile, che non lascia spazio ad un certo gusto della descrizione della violenza, quasi cinico, di raccontare la storia.
Vediamo la ragazza spazientirsi definitivamente (figura 9) ed entrare (figura 10) per quello stesso ingresso del quale già conosciamo i dettagli. Miller usa il suo affacciarsi in una delle stanze per fornire un quadro approssimativo degli abitanti della casa; attraverso una falsa soggettiva vediamo una serie di foto, una delle quali mostra fugacemente una famigliola composta dai genitori e da due figli (figura 11). Appena il tempo di incamerare il dettaglio, che si viene riportati verso l’inquietudine, la perplessità, della ragazza, che ormai è diventata anche la nostra, nel salire le scale (figura 12) in un silenzio irreale, non ricevendo risposta alcuna dagli inquilini di cui conosce il nome.
L’unico movimento di macchina che compare in questi tre minuti scarsi lo si scorge nel seguire la ragazza in cima alle scale (figura 13). E’ diventato improvvisamente importante seguirne il volto, le reazioni. Il regista ci ha fornito, tramite la messa in scena, le due informazioni necessarie al climax narrativo: l’inquietudine di una situazione anormale, e il suggerimento che il personaggio che ci viene presentato in questi primi attimi è solo un pretesto per condurci per mano dentro una situazione, un ambiente, un fatto che è accaduto.
A questo punto, per cui, diventa possibile, non superfluo ma anzi necessario, seguire le movenze, il volto della ragazza. Che dalla perplessità della figura 13 passa all’essere attonito, incredulo, nella 14. Attraverso il solito lavoro di montaggio, la macchina da presa viene posta all’interno di una stanza, alla quale la ragazza, avanzando nel corridoio, si affaccia.
Bastano così poco più di due minuti (titoli di testa compresi) a Miller per arrivare a una raffigurazione del delitto (figura 15) che sia contestualizzata e inquadrata in un tessuto narrativo che la supporti e la sostenga.
Al punto che è diventata familiare la tecnica di raffigurazione indiretta del personaggio attraverso una fotografia, per cui, dopo che il climax si scioglie e si libera nel pianto, disperato e disgustato, della ragazza (figura 16), lo stacco sull’immagine della ragazza in foto (figura 17), di per sé non giustificata da nulla, risulta omogenea alla messa in scena globale, e viene naturale associarla al corpo martoriato che abbiamo intravisto solo di spalle.
Usciamo dalla casa così come ne siamo entrati, ritornando sulla campagna, sul cielo plumbeo (figura 18). Un filare di alberi questa volta sottolinea l’orizzonte; l’attenzione è attirata verso lontano, il piano tenuto per una decina di secondi crea l’aspettativa di qualcosa di altro, di nuovo.
E infatti le inquadrature successive, due piani ambientazione di New York (figure 19 e 20), ci spostano altrove.
Fino ad entrare in un corridoio fumoso e affollato (figura 21), e a iniziare a sentire quella voce “da cavoletto di Bruxelles, se i cavoletti di Bruxelles avessero una voce”. Dopo che l’introduzione ha messo in chiaro quale sia la traccia etica e le scelte estetiche del film, finalmente possiamo fare la conoscenza con Truman Capote,che sarà spettatore e, in qualche modo, vittima di quello stesso delitto.

già pubblicato qui

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"More tears are shed over answered prayers than unanswered ones"
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Velvetone

Reg.: 20 Nov 2006
Messaggi: 604
Da: milano (MI)
Inviato: 29-01-2007 22:02  
Molto interessante Petrus. Comunque resta il fatto che è assolutamente impossibile amare questo film.

Dando per assodato la tua tesi, essa rimane appunto solo n'interpretazione,ma personalmente che Miller volesse o meno sottolineare la dicotomia forte città/campagna, borghesia/ruralità, Capote/Perry, non è abbastanza per non rendere il racconto pesante,arido, e in ultimo pure un po' didascalico...

Ma sospetto sia solo questione di gusti,dato che seppur velatamente,schifi '21 Grammi '...
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Petrus

Reg.: 17 Nov 2003
Messaggi: 11216
Da: roma (RM)
Inviato: 29-01-2007 22:52  
sei caduto in una negazione di una negazione
un pò labile come controargomentazione
ho aperto cmq un topic apposito perchè parla di 21 sole sequenze, se si vuole discutere in generale del film c'è lo spazio apposito
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Velvetone

Reg.: 20 Nov 2006
Messaggi: 604
Da: milano (MI)
Inviato: 30-01-2007 12:33  
quote:
In data 2007-01-29 22:52, Petrus scrive:
sei caduto in una negazione di una negazione
un pò labile come controargomentazione
ho aperto cmq un topic apposito perchè parla di 21 sole sequenze, se si vuole discutere in generale del film c'è lo spazio apposito


Non sono mai stato un campione di dialettica....

A parte le battute,l'argomentazione è debole perchè in realtà tutto quello che hai detto è condivisibile,solo che per me il valore di quelle sequenze non è tanto significativo nell'economia globale del film quanto lo è per te.

Tutto qua.
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Petrus

Reg.: 17 Nov 2003
Messaggi: 11216
Da: roma (RM)
Inviato: 31-01-2007 00:50  
ok, detto così suona meglio
ma ti invito cmq a rivedere il film partendo dal dato che ho evidenziato nell'analisi
mi saprai dire dopo
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Schizobis

Reg.: 13 Apr 2006
Messaggi: 1658
Da: Aosta (AO)
Inviato: 31-01-2007 08:42  
quote:
In data 2007-01-29 21:41, Petrus scrive:
avvertenza: per una più agevole e circostanziata lettura di quanto segue sarebbe bene avere a portata di mano le immagini presenti in questa pagina


Che Bennet Miller volesse parlare di un tema, del dipanarsi di una dinamica di interrelazioni, piuttosto che fotografare semplicemente una parte della vita di un uomo, seppur un grande e chiacchierato scrittore del ‘900 come Truman Capote, durate la tormentata stesura del suo capolavoro, “A sangue freddo”, lo si evince sin dalla prima sequenza del suo film.
Miller mette a tema il confronto tra due universi monadici, quello introdotto, per l’appunto, dalla sequenza iniziale, della provincia americana, dei paesi solitari, sommersi dal mare di campi, di steppe, e quello, creato dall’aspettativa del pubblico derivante dal titolo e dall’argomento, dell’ambiente salottiero e sofisticato in cui Capote viveva e si muoveva.
Essendo già in mens spectatorum questo secondo scenario, il regista parte dal primo, rimandando nell’estetica descrittiva della prima sequenza a una precisa etica della messa in scena.
Capote non è il vero fulcro del film. Lo è piuttosto il suo rapporto con Perry, l’omicida, che viene posto come antitesi allo scrittore, diventando entrambi paradigma della dicotomia che Miller vuole mettere in luce. Ma Capote è necessario al muoversi di tutta la vicenda, è il motore che spinge l’indagine (propria e del regista), ed ecco perché, sullo schermo nero, appare il suo (cog)nome, centro del film, eppure solo pretesto. Ecco il perché il titolo e la contestualizzazione dell’azione, appaiono così ben circostanziati, eppure così poco in rilievo, così minuti all’interno dell’enormità dello schermo buio (figure 1-2).
Ma, immagazzinata la figura attorno alla quale si svolgerà il film e il tempo dell’azione, il sipario si apre sul secondo polo attorno a cui ruota il film, sulla campagna nella quale si consuma (si è già consumato) l’efferato omicidio.
E la scelta rarefatta delle inquadrature innesta da subito la pellicola sui binari della tesa ma pacata indagine riflessiva sull’uomo e sui suoi moti dell’animo.
La prima inquadratura (figura 3) è paradigmatica di tutto quel che vedremo nelle prossime due ore. Un primo piano di un campo di spighe, battute dal vento, sullo sfondo di un cielo grigio. Il regista prende da subito le distanze con il mondo abituale in cui Capote si muoveva. I salotti, l’alta società newyorkese, verrà raffigurata fugacemente, il necessario per descrivere senza approssimazione il personaggio.
Sin da subito si è immersi nella provincia, una provincia non solare e serena, ma un ambiente grigio, legato alla terra, di solidi e noiosi agricoltori.
Le due inquadrature successive (figure 4-5) sono due piani descrittivi: il totale del campo di grano, e l’immagine di una casa, le cui finestre con tutta probabilità si affacciano sul campo stesso - anche se non è necessario, il lavoro di montaggio viaggia per associazioni e somiglianze: le spighe, il campo e la casa potrebbero essere assolutamente lontani fra di loro (come forse è) ma vengono associati dalla conoscenza comune che lo spettatore medio ha della campagna. La catena spighe-grano-casa di campagna è immediatamente percepita come legata consequenzialmente, e permette al regista di portare avanti un discorso semantico, di significato, a partire da tre semplici inquadrature - .
Tanto immediato è il collegamento percettivo, che non serve altro per comprendere che lo snodo di questa prima sequenza sarà proprio la casa.
Tant’è che al quarto stacco si ha conferma di ciò nell’inquadratura dell’ingresso visto dall’interno (figura 6), che oltre a focalizzare l’attenzione sul luogo dell’azione, suggerisce che vi sia per essere un movimento, in entrata o in uscita, come prima azione scenica del film.
L’isolamento, il grigiore, la staticità delle prime immagini, ci porta a percepire che la ragazza che effettivamente sta bussando alla porta (figura 7), sia in attesa da un qualche tempo. Sensazione creata dalla gestione statica della macchina da presa, dalla totale assenza di commento musicale, come dal fatto che la presentazione del primo personaggio avviene in campo lungo. Ne percepiamo la figura, a malapena gli abiti, capiamo quel che sta facendo, il suo voltarsi lievemente spazientito. La messa in scena porta l’attenzione non su chi sia, ma su quel che fa, aiutando, anzi, conducendo per mano lo spettatore verso un lieve, impercettibile senso di disagio, di incertezza.
Il girarsi della ragazza verso la macchina (figura 8 ), dato l’isolamento della casa, dà motivo di credere che nessuno degli abitanti si sia mosso di lì. Questo, unito alla percezione di attesa di cui si diceva prima, conferma l’intenzione di creare una situazione incerta, anomala.
Miller impiega per proiettare lo spettatore nel vero cuore del suo film, il paese in cui Capote si troverà ad ambientare il suo “A sangue freddo”, solo 8 inquadrature, impersonali e statiche, che rimandano alla cifra complessiva del film, alla scelta etica del regista, di interessato distacco, che si manifesta attraverso l’estetica del girato.
Su questa falsariga ci si addentra nel film (e nella casa), passando alla descrizione del fatto, dell’omicidio, già compiuto, continuando ad immergersi in un certo modo, freddo e terribile, che non lascia spazio ad un certo gusto della descrizione della violenza, quasi cinico, di raccontare la storia.
Vediamo la ragazza spazientirsi definitivamente (figura 9) ed entrare (figura 10) per quello stesso ingresso del quale già conosciamo i dettagli. Miller usa il suo affacciarsi in una delle stanze per fornire un quadro approssimativo degli abitanti della casa; attraverso una falsa soggettiva vediamo una serie di foto, una delle quali mostra fugacemente una famigliola composta dai genitori e da due figli (figura 11). Appena il tempo di incamerare il dettaglio, che si viene riportati verso l’inquietudine, la perplessità, della ragazza, che ormai è diventata anche la nostra, nel salire le scale (figura 12) in un silenzio irreale, non ricevendo risposta alcuna dagli inquilini di cui conosce il nome.
L’unico movimento di macchina che compare in questi tre minuti scarsi lo si scorge nel seguire la ragazza in cima alle scale (figura 13). E’ diventato improvvisamente importante seguirne il volto, le reazioni. Il regista ci ha fornito, tramite la messa in scena, le due informazioni necessarie al climax narrativo: l’inquietudine di una situazione anormale, e il suggerimento che il personaggio che ci viene presentato in questi primi attimi è solo un pretesto per condurci per mano dentro una situazione, un ambiente, un fatto che è accaduto.
A questo punto, per cui, diventa possibile, non superfluo ma anzi necessario, seguire le movenze, il volto della ragazza. Che dalla perplessità della figura 13 passa all’essere attonito, incredulo, nella 14. Attraverso il solito lavoro di montaggio, la macchina da presa viene posta all’interno di una stanza, alla quale la ragazza, avanzando nel corridoio, si affaccia.
Bastano così poco più di due minuti (titoli di testa compresi) a Miller per arrivare a una raffigurazione del delitto (figura 15) che sia contestualizzata e inquadrata in un tessuto narrativo che la supporti e la sostenga.
Al punto che è diventata familiare la tecnica di raffigurazione indiretta del personaggio attraverso una fotografia, per cui, dopo che il climax si scioglie e si libera nel pianto, disperato e disgustato, della ragazza (figura 16), lo stacco sull’immagine della ragazza in foto (figura 17), di per sé non giustificata da nulla, risulta omogenea alla messa in scena globale, e viene naturale associarla al corpo martoriato che abbiamo intravisto solo di spalle.
Usciamo dalla casa così come ne siamo entrati, ritornando sulla campagna, sul cielo plumbeo (figura 18). Un filare di alberi questa volta sottolinea l’orizzonte; l’attenzione è attirata verso lontano, il piano tenuto per una decina di secondi crea l’aspettativa di qualcosa di altro, di nuovo.
E infatti le inquadrature successive, due piani ambientazione di New York (figure 19 e 20), ci spostano altrove.
Fino ad entrare in un corridoio fumoso e affollato (figura 21), e a iniziare a sentire quella voce “da cavoletto di Bruxelles, se i cavoletti di Bruxelles avessero una voce”. Dopo che l’introduzione ha messo in chiaro quale sia la traccia etica e le scelte estetiche del film, finalmente possiamo fare la conoscenza con Truman Capote,che sarà spettatore e, in qualche modo, vittima di quello stesso delitto.

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Credo che questo sia uno dei modi più appropriati di accostarsi a un film come fosse una opera d'arte.
Ricordo quando lessi il libro di Fornara (geografia della messa in scena) rimasi sbalordito dalle possibilità infinite dell'analisi di un film, anzi proprio dell'incipit di un film. Ricordo l'analisi dei primi fotogrammi di Rio Bravo, dei campi e controcampi, dei dettagli, dei primi piani, tutto secondo le regole del cinema classico, in cui la messa in scena sembra invisibile, ma basta guardare un poco meglio e salta fuori.
Non ho visto Capote, ma mi riprometto di vedere il film alla luce della Geografia della messa in scena, visitando luoghi dove non sono stato mai.

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Petrus

Reg.: 17 Nov 2003
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Da: roma (RM)
Inviato: 31-01-2007 23:41  
buon viaggio!
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